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LA SEDIA... (Titolo e STORIA di Gabriele Martinetto)

LA SEDIA... (Titolo e STORIA di Gabriele Martinetto)

2.097 1

Elementa Luminis


Premium (World), Torino

LA SEDIA... (Titolo e STORIA di Gabriele Martinetto)

...Stavo servendo del vino bianco secco dell’Umbria, quella sera che l’avevo conosciuta.
Mi stavo portando avanti con il lavoro in attesa che arrivasse la gente.
Il cavatappi era difettoso e così mi ero messo ad aprire le bottiglie in anticipo.
Etichette della Cardeto mi scorrevano tra le mani mentre afferravo e stappavo.
Un regista coi baffi biondi festeggiava il compleanno e proiettava un film di un ora e un quarto.
C’era di mezzo la musica classica e doveva arrivare anche il direttore d’orchestra per la serata.
L’ambiente era spazioso, molto spazioso.
Soffitti alti, ampi saloni divisi da tendoni neri e bianchi che si potevano tirare e chiudere a piacimento con delle guide.
Nella parte centrale stavano posizionando le sedie a file di sei, per la proiezione.
Due donne alla mia destra, una con i capelli lunghi e lisci vestita in un morbido grigio e l’altra con il caschetto che indossava un abito bianco.
Stavano sistemando una parte del rinfresco.
Andavano veloci con le mani.
Sfilettavano, legavano, componevano.
E poi, tagliavano porzioni.
Mi ero avvicinato a loro.
Avevo arraffato e morso furtivamente qualcosa di appena fatto che sapeva di panetteria, di salumeria e avevo goduto di quel sapore rubato.
C’era della scorza di limone in quel morso, il pepe e il sapore della carne suina macinata.
Lunghe file di salsicce secche venivano spellate dalle due e poi sezionate e infilzate con stuzzicadenti a forma di scimitarra.
Cubetti di maiale e aromi pressati in gelatina.
Lingotti di pecorino stagionato.
Stelle di patè e crostini, filoni di pasta sfoglia alle bietole.
Un ottimo servizio.
Le due donne avevano cominciato a coprire il tutto con metri di pellicola Domopak tesa, al di sopra.
E a legare i tendoni per lasciar passare gli invitati solo dopo il film.
Poco più in la c’ero io.
Con un tavolo e una tovaglia bianca.
Me ne stavo seduto su uno sgabello.
Davanti a decine di tubi in vetro dal collo alto.
Perfettamente impilati.
E le bottiglie aperte.
E poco alla volta gli invitati avevano cominciato ad arrivare e a sistemarsi.
Gran belle donne erano entrate, chiuse nei loro cappotti.
Camminavano sicure e iniziavano a slacciarsi la roba di dosso verso gli attaccapanni.
Molte di loro erano accompagnate.
Lunghe chiome si srotolavano una volta tolte le sciarpe.
Rossetti su sorrisi.
Denti luminosi e mascara.
Le luci illuminavano i loro capelli, le loro prime risate.
Sentivo i tacchi delle scarpe battere sulla pavimentazione.
I loro occhi cominciavano a guardarsi attorno e poi arrivavano al tavolo dei vini con me dietro.
Nel loro sguardo c’era sete di divertimento, di complimenti e di qualcosa da bere.
Un uomo mi si era piazzato davanti mentre guardavo le invitate.
Aveva il parrucchino.
Era di una tintura rosso ramata che disegnava una riga laterale a onda.
E indosso un maglione color passata di piselli.
Gli avevo dato da bere, versando spumante fino all‘orlo.
Ci aveva appena bagnato il becco, il tizio.
“Ma è caldo, non si può bere”.
Non gli avevo risposto.
E poi, era arrivata Lei.
Portava i capelli tagliati corti da un lato.
Era la donna più alta della serata.
Camminava sicura e fiera.
Ostentando un po di noia per queste presentazioni che le sapevano di cultura e forse pure tutte uguali.
Forse.
Anche lei portava uno scialle e un cappotto.
Si era avvicinata a me.
Mi osservava mentre versavo il vino.
Aveva mostrato interesse per il cartone del succo d’ananas.
E per come riempivo i bicchieri.
“Guardate che quello lì non è un barman, fa ben altro nella vita...” Una voce bassa, piena e calda si era rivolta verso di me. Aprendo un sipario.
Il direttore d’orchestra del film s’era avvicinato, portandosi dietro tre delle migliori fighe della serata.
“Racconta un po’ a queste signore chi sei”, aveva detto.
Avevo l’attenzione.
Il direttore aveva puntato il dito, un riflettore, potevo dire quel che volevo in quei minuti, adesso.
E avevo cominciato, girando intorno a quel che facevo.
Risate e temperatura tiepida che riusciva a salire.
Interesse femminile.
Temporaneo.
E intanto quella più alta mi stava di fianco.
Mi ascoltava.
Sentivo che voleva farsi largo tra le altre.
“Aggiungimi qualcosa a questo succo”. Aveva detto.
E poi si era andata a scegliere una sedia per la proiezione. Ma, prima del buio: “Quindi cos’è che fai di mestiere?” Con voce piena di marmellata e burro.
“Vendo superalcolici per i discount”.
“Mi piace” aveva detto ridendo. Forse pensava scherzassi.
E mi aveva dato il suo numero. Poi, dopo l’ora e un quarto e il buio era sparita.
La sua sedia vuota.
Quei sui grossi, enormi polpacci accavallati, erano trottati via.
Non riuscivo a capire se ne sentivo già la mancanza.
E nei giorni successivi ci eravamo sentiti.
L’avevo chiamata.
Una voce dolce dall’altra parte della cornetta, come coperta da lunghe lenzuola. Come se si rannicchiasse quando rispondeva. Dolce e mansueta l’immagine che avevo di lei. E dopo una settimana mi aveva dato un appuntamento.
Avevo preso un autobus blu dal capolinea della metro.
Un euro e dieci di biglietto.
Sciocchezza.
Mezz’ora d’autobus.
Un inezia. Ma stavo scomodo, il bracciolo stretto, il gomito nelle costole, lo zaino sulle ginocchia. Che nel portaoggetti non ci stava.
La sua voce al telefono aveva detto: “Venti minuti e ti passo a prendere, stai nella piazza”.
Erano le cinque del pomeriggio, stava cominciando a far freddo. Un quarto di luna brillava sulla piazzetta degli autobus di questo paesino collinare.
In un cielo ancora celeste.
L’attesa.
Una terrazza panoramica con pini marittimi in discesa che andavano verso il mare.
L’acqua all’orizzonte in questa fase di tramonto era diventata marrone e rossa.
Si intravedevano le onde oltre le prime nebbie che cercavano di comunicare, agitate.
Una Mercedes lunga nera e sporca di fango sui lati aveva inchiodato lungo la corsia dei taxi.
L’attesa in questa piazzetta quadrata era terminata.
La porta del passeggero era stata aperta di slancio.
Assieme al portabagagli, dall’interno.
“Butta pure lì lo zaino. Scusa, si... dimmi, dimmi... è che sono venuta a prender un mio amico”.
Stava al telefono.
Fumava.
Il Mercedes all’interno odorava di campi da tennis al coperto dopo diverse ore di partite.
I capelli erano arruffati.
Era in pantaloni della tuta stretti, scarpe da ginnastica e una maglietta bianca senza maniche strappata sul davanti fino alla pancia. La faccia struccata, grande, lunga, da pugile. Le braccia grandi e muscolose. Sotto la maglietta le tette nude che ballonzolavano sode.
Sly da giovane, avevo pensato. In tutto. Tranne che per le tette.
“Buondì”, le avevo detto.
Continuava a parlare al telefono, intanto.
Guidava e buttava fuori il fumo della sigaretta che teneva in bocca.
Il fumo le era finito negli occhi mentre aveva sterzato l‘auto. Le era uscita una smorfia di fastidio.
Era un po’ diversa da come me la ricordavo.
“Ora ti saluto, dai, sì, dai... che sono con questo mio amico. Si stasera sta da me, Ciao eh, ciao”.
Fine della telefonata.
Non sapevo che cazzo dire.
Dietro, sui sedili posteriori c’erano confezioni di carciofi surgelati, misto di mare e una cassa d’acqua.
“Beh, Ciccio che mi dici? tutto bene? Stasera ceniamo a casa. Avevo pensato di portarti fuori all’inizio ma se vuoi vedere il paese, al limite... dopo la cena.
Non mi vesto sempre da sera, mi piace che mi vedi così come sono realmente”.
Mi era venuto uno specie di magone nella gola.
I tornanti si susseguivano, il Mercedes nero li divorava.
In dieci minuti eravamo davanti casa sua.
Una villetta su due piani.
Cancello automatico, porta automatica, tutto elettronico.
Costruita su una pendenza collinare.
Appena chiuso il portone alle mie spalle: “Guarda...” mi aveva detto, con uno sbuffo, una nota di dispiacere nella voce. “Guarda, per te ho levato le catene dai muri, è stato un lavoraccio”.
Ma porca troia.
“Le catene? Mica c’erano problemi, eh? Potevi tenerle”.
Mi si era avvicinata, carezzandomi la guancia, mentre mi mostrava le stanze.
Era tutto in mattoni scuri l’interno.
In una delle pareti della sala c’erano diversi fori.
“Stavano là, le tengo sopra il divano. Appese”.
Poi si era fiondata sullo stereo e aveva messo un pezzo dei Depeche Mode, una raccolta.
La musica usciva ad alto volume in tutta la stanza.
C’era un divano lungo, un cuscino quadrato sulle piastrelle del pavimento e una sedia antica vicino alla zona bar.
Già, la sedia.
Mi ci ero messo seduto sopra, velocemente, d‘istinto.
Fuori dalle finestre il viola del tramonto, qualche bassa stella nel cielo.
Il magone nella gola, perchè cazzo mi sono andato a ficcare in sto casino? Pensavo.
Non me la ricordavo così.
Vicino allo stereo un catafalco di televisore, un monitor enorme che stonava con il resto dell’arredamento, vecchio di vent’anni, con degli adesivi appiccicati.
“Io non guardo la tv”.
E aveva acceso il monitor, che era collegato ad un pc.
Sullo schermo erano apparsi dei rudimentali effetti ottici tipo fulmini che andavano a tempo con la musica.
Si era levata le scarpe da ginnastica, due fette del 42,
e si era buttata sul divano abbracciando un pelouche bruciato tinta marrone, con delle toppe. Era pieno di cioccolatini in una tasca nella pancia.
Se ne era messo uno in bocca, masticando e ridendo.
“Ma perché te ne stai su quella sedia?”
“Sto bene qua ora”.
Non sapevo cosa fare.
Si era rimessa in piedi, aveva alzato il volume dello stereo. I fulmini sullo schermo adesso andavano a tempo mentre io stavo rigido, attaccato alla sedia.
“Ma perché te ne stai li seduto, io proprio non lo capisco”. Si muoveva sinuosa, mi accarezzava. Ma sulla sedia in due non ci stavamo.
Non riusciva a colpire da quella posizione.
Il bancone del bar sempre alle mie spalle.
Allora aveva preso in mano un astuccio con un lungo vibratore dentro e una cintola di cuoio fatta su misura. Ridendo.
“Ciccio, tu lo prendi”.
“Cosa?”, la mia voce squittiva
“Tu lo prendi, no?”
“No, io non lo prendo”.
“Ma si dai, Ciccio, dai tu lo prendi”.
“Te l’assicuro, non lo prendo”.
“Ma perché? Ma…” Non si capacitava. Aveva fatto un giro attorno alla sala, guardandomi con quei suoi arnesi in mano.
Poi aveva cambiato cd.
“Ora ti metto la musica che mi manda in bestia, quella che mi fa impazzire veramente”.
E aveva tirato fuori un CD da bancarella di Lando Fiorini. L’aveva messo su.
“Lo vedi ecco Marino...”
Il vibratore estratto dalla custodia, era accucciata vicino allo stereo con quelle cosce enormi, quei polpacci che esplodevano di muscolo bovino.
“Quant’abbondanza c’è...”
Alzava a tutto volume “Na gita ai Castelli”, ripetendo le strofe, accarezzando lo stereo. Guardando verso di me.
“S'annamo a diverti'...”
Lo sfregava, se lo passava sulla bocca. Lo stringeva.
E allora avevo cominciato a cagarmi sotto sul serio.
La sua voce non riusciva a superare quella di Lando ma sentivo che urlava, mentre i fulmini sullo schermo cangiavano dal verde al giallo.
“Se vuoi ti faccio un pompino”.
“Come?” Non capivo, con la canzone a tutto volume.
“Ti faccio un pompino, ma guarda che poi sei mio per tutta la vita”.
Il cielo era diventato buio, nero, fuori dalla finestra.
Dovevo attraversare ancora tutta la nottata.
Le avevo fatto segno di abbassare un po’ il volume: “Senti, ma i carciofi che stavano in macchina sono per la cena?”
Si era alzata in piedi, lentamente.
Fiorini inquinava ancora l’aria già satura e pesante di sudore. Si era alzata in piedi lenta, triste in volto e pallida.
“Sì, ora li vado a prendere”.
E lentamente era uscita fuori di casa, lasciando il portone socchiuso.
Iniziava la seconda traccia del cd, i fulmini gialli si erano arrestati un istante, in attesa del nuovo brano.
Allora mi ero alzato lentamente dalla sedia che aveva scricchiolato. E mi ero voltato, guardandomi intorno.
Quella parete di mattoni scuri con i buchi.
I suoi attrezzi lasciati sul pavimento.
Poi avevo sbirciato fuori.
Vedevo un pezzo del viale di entrata della villetta, una riga di cielo e il marciapiede illuminato.
Una striscia di visuale dalla porta socchiusa.
Al di fuori il rumore delle portiere della Mercedes che venivano chiuse, sbattute. La serranda del garage abbassata.
Avevo infilato la giacca, lei stava risalendo da una scala interna, ma aveva lasciato il portone aperto.
Sentivo i suoi passi pesanti mentre camminava lungo il corridoio. Rimbombavano sulle scale, stava risalendo con le borse della spesa e i surgelati che perdevano acqua.
Sentivo il suo pallore che risaliva assieme a lei mentre uscivo, senza riuscire a scappare.
La mia schiena era indurita, dalla forzatura di stare seduto su quella sedia intrappolato. “Dammi una mano”. Mi era spuntata da dietro con quella faccia, quel viso gigantesco che da triste diventava ora delicato.
Quello di una bambina indifesa e ipertrofica.
Coi sacchetti che le gocciolavano in mano.
Con il braccio destro, teneva la cassa d’acqua Vitasnella da sei pezzi.
“Ora ti porto fuori a vedere il paesino”.
Era rimasta con quell’orrenda tuta e la maglietta bianca stracciata ma attorno, sulle spalle, si era buttata un cappotto nero come un mantello e un foulard per coprirsi il collo.
Mi aveva portato fuori a vedere veramente il paese, il centro antico.
Era buio e faceva freddo.
L’aria era attraversata dall’aroma delle stufe a legna che legava bene con il profumo dell’aria gelata.
Lungo la camminata ci eravamo fermati in una norcineria.
Qualche etto di coppiette piccanti, nel cono di carta da passeggio. Tanto per camminare spensieratamente.
Mi aveva preso sottobraccio, per entrare in una vecchia chiesa dai muri in pietra. La più antica del posto.
Il portone aveva grattato sui cardini arrugginiti mentre varcavamo la soglia. L’eco della porta che si era chiusa alle nostre spalle aveva poi percorso le mura interne.
Il silenzio.
C’era poca gente li dentro, poca luce. E lei si era andata a mettere in un angolo verso il fondo, su una panca. In ginocchio.
Aveva cominciato a pregare.
Ed io ero uscito fuori, verso il piazzale degli autobus.
Da dove ero venuto.

Commenti 1

  • lucy franco 09/01/2015 9:34

    wowww

    viene da dire: " e poi??"...ma anche no, perfetta così, questa storia nella storia al centro della tua sedia, in equilibrio instabile.