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Progetto "Foto&Racconti": LA TRILOGIA DEI FIORI: LES FLEURS DU MAL, BLOODFLOWERS, FIORI ITALIANI

Progetto "Foto&Racconti": LA TRILOGIA DEI FIORI: LES FLEURS DU MAL, BLOODFLOWERS, FIORI ITALIANI

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Progetto "Foto&Racconti": LA TRILOGIA DEI FIORI: LES FLEURS DU MAL, BLOODFLOWERS, FIORI ITALIANI

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Fotografia di
Racconto di

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LA TRILOGIA DEI FIORI: LES FLEURS DU MAL, BLOODFLOWERS, FIORI ITALIANI
Tra Charles Baudelaire, Robert Smith, Luigi Meneghello
Resti di nevralgie educative a ritroso

(racconto liberamente ispirato e tratto da FIORI ITALIANI di Luigi Meneghello)

FIORI ITALIANI (anni ’30)
S. pensò per la prima volta in confuso a questo libro nell’estate del 1944, sdraiato per terra davanti all’imboccatura di una grotta in Valsugana. Era convinto che nel rastrellamento i suoi compagni ci avessero rimesso le penne, e avvertiva con una sorta di pigrizia intelligente che quella veniva ad essere la conclusione dell’educazione che avevano ricevuto. Vent’anni dopo raccontando del loro rastrellamento del 10 giugno, con gli stessi pensieri, si mise a scriverli su una pagina, cominciando: “Che cos’è un’educazione?”. Aveva il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos’era una diseducazione.
Una volta in Inghilterra S. fu invitato a far parte di un panel che aveva anche un tema, l’education sotto il profilo della specialization. Si trattava di fare dei discorsetti a turno. Il grecista (era un epigrafista) disse che siamo impalati sui corni di un dilemma. O uno si specializza sul serio e viene a sapere tutto su niente, oppure all’incontrario. Pareva molto soddisfatto, raggiante. Il neozelandese spiegò agli studenti francamente che l’università esiste perché i docenti devono fare le loro ricerche, questa è la parte seria della faccenda e voialtri andate in merda. La filosofa parlò della tension, non solo in relazione al problema dello specializzarsi, ma nella vita in generale, nella nostra condition. Come la procellaria (ma non si sa con quali mezzi) segnala l’arrivo della tempestosa procella, così quella pesante giovanotta attraversata da scosse di eccitazione, annunciava le tempeste future. Quando venne il suo turno S. consigliò a tutti di specializzarsi, provando per l’occasione un avverbio appena imparato: disse, ma lui neanche morto. Aggiunse alcune battute da ridere di cui nessuno s’accorse, e delle osservazioni gravi che il pubblico accolse con grandi risate. Parlava accoratamente dei propri studi, del triste ambiente della sua università: più cercava di spiegare com’era triste Padova e più ridevano. Un trionfo. Alla fine si alzò tra l’uditorio una ragazza dai capelli rossi, malinconica e cortese, che si mise a rimproverare il panel per aver trascurato l’aspetto più importante dell’educazione, quello floreale. disse.
S. si portò a casa la teoria dei fiori in vaso e ci pensò su qualche anno.
Sembravano chiare solo le domande: quanto tipica era, quell’educazione, e di che cosa era tipica? Quanto importante è saperlo, in relazione ai nostri interessi di oggi? Si tratta solo di aspetti curiosi di una cultura di terz’ordine, com’era allora la nostra, e come c’è chi pensa che sia rimasta?

LES FLEURS DU MAL (anni ’80)
R. subì quell’effetto della generale immutabilità dell’ambiente paesano e si potrebbe dire che l’intera nozione del divenire delle cose era ancora assente. Quanto ai libri scolastici non ebbe modo di fare esperienza della curiosa distinzione tra il contenuto di un libro e il contenente, il libro stesso. Perché questo ha una sua personalità, trasmette qualcosa di proprio. Ai tempi di S. l’inquadramento storico e politico era efficace, ciò che c’era da imparare s’imparava in modo definitivo tutto codificato in un unico libro “Il Balilla Vittorio” (costava 9 lire). Eppure a R., considerando il profilo sociale, la scuola aveva certificato l’education sotto il profilo della specialization, la strada tecnica (sicura) contro la strada classica (insicura). Qui gli era impartita l’astrusa lingua della “poesia” per vie intuitive, a orecchio. A mano a mano che R. si addentrava nel territorio degli studi, le cose di cui faceva esperienza gli venivano fornite dai testi stessi che leggeva, anche lì erano cose-parole, non cose-cose. Ogni volta che provò a uscire tra le cose-cose, con emozionanti atti di volontà, restò male. Con il senno di poi anche R. capì che quello che c’era di insoddisfacente nella scuola era semmai la sofferenza per la mancanza di idee e di convinzioni e tale mancanza non era ridicola, era tragica. La cultura letteraria (i libri) non pareva che facesse entrare in qualche parte, ma girare in uno spazio, moto dentro a luogo, tornando sopra le stesse cose. Come vivere in un paese: ma qui non moriva e non nasceva mai nessuno, voglio dire nessuno di nuovo. Ma il vero elemento di disturbo per R. era l’arte, sentiva dire in giro che l’arte è fondamentalmente lutto, la parte funeraria dell’umanità. Fortunatamente tutt’altro concetto dell’arte operavano altri guastatori sparsi in altre scolaresche, presentandola come uno dei mezzi più espliciti per opporre la vita alla scuola, l’autentico all’inautentico e l’arte voleva dire soprattutto pittura e i grandi francesi. Ma nella scuola di R. nei colori, nelle forme e nel tono non c’era salvezza. L’incomprensibile “tono”: le foto dei quadri col tono le facevano apparire piene di fumo. Ma R. inclinava ogni mattina lo sguardo alla finestra, un tiepido sforzo, così l’osservare immobile sfumava il ghiaccio grigio di un porto inane di legami umani. Fragile il profumo del caffè, soffocati i rumori, lui si apriva all’unico orizzonte del sono ed era il punto e a capo dell’impressione, saliva ramo su ramo quell’aria immota che gli pareva un fondo musico correre di danza. La discrasia mentale era la sua malattia.

BLOODFLOWERS (anni ’90)
R. per circa un anno si considerò uno studente di lingue (voleva mantenere a vista il profilo della specialization), poi passò a lettere e filosofia. Anche lì come S. si trattava di contare come obbligatori certi esami che altrimenti sarebbero stati facoltativi, per il resto i due corsi erano uguali. La differenza sarebbe dovuta apparire alla fine. Ecco, forse non c’era per esempio lo stesso ardore monocromatico delle lezioni di Filosofia Morale. Ma l’insegnante, Francesco Ferrani, ci metteva pure lui tutto se stesso per far sentire alla scolaresca il dramma morale dell’universo. Pure lui parlava con la foga di un uomo genuinamente angosciato, si affaticava e sudava. La Filosofia Morale che verte sul Doveressere era rimasto uno dei termini-emblema di questi anni. R. si affidava spesso, sempre, e molto volentieri ai pensieri dell’uomo dei bloodflowers ci trovava il gusto della Morale, perché in Morale, come scriveva S., sarebbe una sciocchezza credere che ciò che veramente importa sia il Doveressere in sé e per sé: ciò che importa è quello che c’è sotto il Doveressere, il suo vero fondo filosofico, e cioè L’Essere-del-Doveressere. Questo veniva ad essere (prova tu, a parlare di filosofia senza usare il verbo essere!) il punto d’unione. Ma per entrambi c’era da imparare una sola cosa, che l’Essere viene sempre primo, e che asserire questo primato è il principio e la fine di ogni filosofare. R. capì che aveva perso il Tempo. Qualcuno gli aveva mangiato il Tempo. Se avesse trovato “chi” gli insegnava, sarebbe stato un bel tema nuovo “ieri non c’era ed oggi c’è”, non come quei vecchi, come al tempo di S., che stanno lì a studiare come marmotte, per poi fare saggi e libri ordinati, prevedibili. Non c’è dubbio che alla fine quello che attirò R. era l’aria.

R. incontrò S. molti anni più tardi e capì con lui che condividendo la sua diagnosi ironica, venata da più di un dubbio che finisce col chiederci ancora oggi: >.

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