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Progetto "Foto&Racconti": Scelta per una vita (Pettazzoni-Rigoglioso)

Progetto "Foto&Racconti": Scelta per una vita (Pettazzoni-Rigoglioso)

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Progetto "Foto&Racconti": Scelta per una vita (Pettazzoni-Rigoglioso)

Scelta per una vita

Per una migliore visione cliccare sul link per la versione PDF:
http://www.francescotorrisi.com/Foto&Racconti/Rigoglioso_Pettazzoni_Scelta_per_una_vita.pdf

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Fotografia di
Racconto di Arnaldo Pettazzoni
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Il sole stava tagliando a metà la notte, illuminando di un lieve colore rossastro quel lembo di bosco adiacente la casa fatta totalmente con il legno nato e invecchiato nel cuore della stessa boscaglia.
Dal piccolo laghetto situato di fronte alla veranda saliva una leggera nebbia che avrebbe avuto una breve vita: appena il calore nascente acquisiva potenza, sarebbe svanita silenziosamente.
La casa era ad uso stagionale, una piccola baita che durante l'estate serviva per la fuga dall'afa soffocante e stagnante, figlia estiva della grande città. Erano anni che possedevo quel piccolo pezzo di montagna, acquistato dai miei e avuto da loro in eredità, comprese svariate quantità di denaro disseminate in numerosi conti occulti e cassette di sicurezza.
Mio padre era un industriale, ricco al punto che forse lui stesso non sapeva quantificarne l'entità. Ha vissuto quasi esclusivamente per quella carta che con il tempo diventava puzzolente, il denaro, e ora io, suo unico figlio ormai quarantenne, godevo di quell'odore pungente. Non continuai a coltivare e accudire l'impero lasciatomi in eredità da mio padre, avevo abbastanza denaro per vivere un'esistenza comoda, considerandola come un risarcimento morale per tutte le cose che mi mancarono nell'adolescenza... Mi riferisco agli affetti, non alle comodità, quelle erano anche troppe.
In verità mi mancava anche l'astuzia per cavalcare e domare quell'impero, sarei finito addentato, sbranato, squartato da belve disumane assetate solo di denaro. Decisi di vendere quell'immensa fonte di guadagni, aiutato nella transazione da uno stuolo di avvocati, commercialisti, tutti già inseriti da anni a busta paga nel pacco gigantesco di dipendenti, tutti chi più e chi meno angosciati di perdere il loro ruolo con l'inserimento del nuovo padrone.
Giungemmo ad un accordo e conclusi con una firma la dilazione di una cospicua somma rateizzata come un vitalizio milionario. La vendetta è un piatto freddo e freddo va gustato, alla svendita del loro impero mio padre e mia madre si saranno rigirati nella tomba.
Cristo! Cercavo disperatamente quel volto quando ero fanciullo. Le rare volte che lo vedevo erano sempre di sfuggita, sicuramente intralciavo i suoi movimenti, e si giustificava, poi, con un sorriso strappato.
“Il volo non può attendere figlio mio, devo scappare”, baciandomi freddamente sulla fronte per poi sparire senza lasciarmi la sicurezza di un suo ritorno, il quando l'avrei rivisto in quella casa immensa piena di cose inutili ma, detto da lui e da mia madre, preziose. I miei compagni di scuola avevano il loro padre che li aspettava fuori dal recinto dell'istituto scolastico, il mio non c'era mai, sostituito da un uomo vestito di scuro che teneva ferma con la mano la portiera aperta e aspettava che salissi rapidamente su quell'auto nera con il motore acceso.

Seduto sotto alla piccola veranda fatta di legno respiravo profondamente quell'aria mattutina, fresca, aromatizzata dai diversi pini disseminati nel piccolo bosco. Aspettavo la voce della mia compagna ancora coricata che mi chiamasse.
Avevo scelto questa donna tra decine di contendenti tutte disposte al “sì, lo voglio” riferendosi più al mio denaro che all'amore fisico per chi lo possedeva.
La sentivo come una persona preziosa, molto più preziosa delle cianfrusaglie disseminate nella villa in città.
L'amavo al punto da considerare il suo respiro come se fosse il mio. Cominciò con un banale malessere, persistente, sottovalutai quel suo continuo disagio, la stanchezza sempre presente, quell'affaticamento costante... fino al giorno che cadde sulle sue gambe lasciandomi annichilito e confuso. Chiamai il medico condotto del paese, attesa estenuante, finalmente giunse e scaricò la responsabilità di risolvere il problema al pronto soccorso, incapace di lasciarmi una diagnosi istintiva e competente del perché di quel crollo fisico.
Aprì gli occhi mentre i barellieri correvano, ed io trafelato al suo fianco all'interno della struttura.
“Cosa è successo?”.
“Nulla, ti sei sentita male e sei svenuta... forse un calo di zuccheri, non lo so! ma stai tranquilla”.
“Lei si sieda, la metteremo al corrente”, fu la frase di rito.
La porta si richiuse e notai solo a quel punto il silenzio tombale regnare in quel posto.
Erano passate quattro ore e nessuno mi aveva rivolto la parola, continuavo a cercare una motivazione ma non trovavo nulla a cui addossare la responsabilità per quell'inspiegabile malessere che da più di un anno persisteva. Un'imponente figura si fermò e finalmente sentii un'altra voce.
“E' lei il parente?”.
“Sono il marito”, risposi, anche se ancora non lo ero.
“Sua moglie resta in reparto di terapia intensiva, dobbiamo completare diversi esami”.
“Non capisco il motivo”, replicai.
“La metteremo al corrente quando avremo certezze”.
La certezza fu che si spense dopo un'agonia che durò tre anni.
Per sconfiggere quel male che impietosamente la stava divorando spesi tutto il denaro che avevo disponibile e anche quel vitalizio fu impegnato, tutto, per salvarle la vita.
Ora sono seduto nell'anticamera in attesa di essere ricevuto per un colloquio, un nuovo lavoro.
Che fatalità, pensai, mi trovavo esattamente nell'ufficio che una volta era di mio padre, nell'azienda che un tempo era mia. Il panciuto interlocutore era all'oscuro di chi fossi, volle sapere anche il privato della mia vita e in confidenza dichiarai che avevo perso tutto quello che avevo per una donna.
Mi ascoltò serioso per tutto il tempo, Si alzò dicendo “Le farò sapere”, stringendomi la mano.
“Signor Cavallotti!".
“Sì".
“Nulla! Mi scusi”.
Lo sguardo si vestì di un sorriso sornione, fissando il nulla parlò sottovoce con se stesso... ”Le donne, le donne!”.
Alzando la voce mi disse: “Vedrà! si rifarà una nuova vita qui da noi".
Non mi girai, ringraziai lasciando alla sua vista le mia spalle chiudendo la porta.
Il portiere, vedendomi con gli occhi umidi, rabbuiato mi avvicinò bisbigliandomi all'orecchio.
“Tranquillo! non faccia così... si consideri già assunto”.

Commenti 1

  • lucy franco 18/09/2011 21:10

    struggente, intenso e scritto molto molto bene.

    complimenti anche all'autore della fotografia, ottima visualizzazione del racconto

    Lucy