Paolo di Paolo

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lucy franco lucy franco   Messaggio 1 di 17
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“I nostri Maestri” aggiunge oggi un altro capitolo alla rubrica, e per noi è un onore presentare questa intervista a cura di Paolo Verdarelli al grande fotografo Paolo di Paolo, che dal 1954 al 1966 è stato il più pubblicato su Il Mondo, rivista fondata e diretta da Mario Pannunzio, realizzando esclusivi reportage con protagonisti illustri tra i quali: Pier Paolo Pasolini, Anna Magnani, Giorgio De Chirico, Ezra Pound, Marcello Mastroianni, Luchino Visconti, Oriana Fallaci, e moltissimi altri personaggi e avvenimenti legati alla cultura, alla politica e all’arte di quel periodo.




Paolo Verdarelli già docente di Sociologia generale e Sociologia della comunicazione presso l'Università di Camerino si è da pochi mesi congedato dall'attività universitaria, e si sta dedicando a tempo pieno alla fotografia. Sia come produzione fotografica (sta per pubblicare un ebook sul paesaggio umbro-marchigiano) che come attività didattica e di ricerca.
In collaborazione con il Centro Studi per la Storia sulla Fotografia Carlo Balelli, ha recentemente pubblicato un saggio sul lavoro femminile, negli anni '30-'50, nelle immagini di Carlo Balelli, di cui abbiamo dato anche noi notizia qui : http://www.fotocommunity.it/blog/uncate ... ei-balelli
E' inoltre recentemente impegnato in una serie di incontri sui Maestri della fotografia, in particolare sull'opera di Henri Cartier-Bresson.
Ultima modifica di lucy franco il 14.12.16, 10:48, modificato 2 volte in totale.
lucy franco lucy franco   Messaggio 2 di 17
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Ci racconta Paolo Verdarelli:
Il primo incontro con Paolo di Paolo è avvenuto nel 2012 a Camerino, in occasione di una mostra antologica del fotografo abruzzese, dal titolo "Un Mondo nelle fotografie di Paolo di Paolo". Nel 2013 ho collaborato all'allestimento di una seconda mostra dello stesso autore, promossa dall'Università, che ha avuto come oggetto la città di Camerino. L'intervista pubblicata su Fc è stata raccolta nei giorni della mostra camerinese. Si propone di approfondire un frammento della storia del fotogiornalismo italiano, negli anni '60, quando Di Paolo collaborava con la rivista Il Mondo diretta da Mario Pannunzio".
lucy franco lucy franco   Messaggio 3 di 17
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La fotografia, tra passato e presente

Paolo di Paolo, novantenne, di professione fotografo.
Di Paolo ha partecipato, da protagonista, all'esaltante stagione del fotogiornalismo in Italia, come collaboratore, dal 1949 al 1966, della rivista settimanale Il Mondo, diretta da Mario Pannunzio. Una rivista prestigiosa, di forte spessore giornalistico-culturale, che raccoglieva firme illustri come Arrigo Benedetti, Ennio Flaiano, Corrado Alvaro.
Pannunzio era un direttore burbero e autoritario, ma insieme rispettoso della libertà professionale dei suoi collaboratori, giornalisti e fotografi.
Ben sapendo che da quella libertà scaturiva la qualità del lavoro giornalistico.
Quell’esperienza unica diede vita anche a un genere fotografico: non a caso si parlava di fotografie da Mondo, immagini che richiedevano uno sguardo rispettoso dell’attualità giornalistica, eppure capace di trascenderla.
Ultima modifica di lucy franco il 13.01.14, 23:38, modificato 1 volta in totale.
lucy franco lucy franco   Messaggio 4 di 17
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In cosa si distinguevano le ‘fotografie da Mondo’?
Lo chiarisce Paolo di Paolo che in un saggio afferma come esse dovessero “essere attuali, ma non di cronaca, valide nel tempo, non databili, riferibili a momenti essenziali dello spirito. Avere un significato spesso velato o espresso con misura, ed essere – a volte – anche maliziose, come le didascalie che Pannunzio scriveva per esse, candide in apparenza, ma estremamente incisive” – 1

Da questo punto di vista non è azzardato affermare che a Di Paolo tornarono utili gli studi di filosofia, la sua visione intellettuale del mondo, ancor più delle sue cognizioni di tecnica fotografica.
Il Mondo chiuse i battenti nel 1966.
E segnò la fine della stagione migliore del fotogiornalismo italiano che da allora andò sempre più alla deriva, svilito da interessi editoriali che stavano cambiando (in peggio) e che privilegiavano lo scandalismo, il gossip, a scapito dell'approfondimento dei temi fondamentali della società italiana. E’ in questo contesto di mutamento dell’editoria italiana che si colloca il fenomeno degenerativo del paparazzismo.

Di questo e di altro parliamo con Paolo Di Paolo che, alla sua veneranda età, ha voluto misurarsi per la prima volta con la tecnologia digitale inaugurando, a Camerino, nelle Marche, una mostra fotografica dal titolo ‘I volti di Camerino. Ritratto di una città gioiosa', promossa dall’ateneo camerte.

1 - Il Mondo dei Fotografi 1951-1966, Comune di Prato, 1990, p. 252.
Ultima modifica di lucy franco il 13.01.14, 23:36, modificato 1 volta in totale.
lucy franco lucy franco   Messaggio 5 di 17
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Nel catalogo della mostra lei parla della sua storia professionale. E accenna alla fine dell'esperienza editoriale della rivista Il Mondo, a cosa significò quel passaggio della nostra storia culturale. Accenna anche agli effetti di quella chiusura sulla sua vita professionale, al suo rifiuto di arruolarsi nelle file del paparazzismo rampante che, a partire dalla seconda metà degli anni ’60, stava snaturando il ruolo del fotoreporter.
Quella scelta le fa molto onore, perché attuata nel segno del rigore e del rispetto per la fotografia.
Ce ne spiega i motivi?



La lunga collaborazione con Il Mondo è stata per me un’esperienza professionale coinvolgente: mi ha aiutato ad affinare una mia personale visione del mondo, che ho cercato di rappresentare visivamente secondo schemi assolutamente distanti da quelli del paparazzismo.
Quell’esperienza mi ha insegnato anche a seguire un’etica professionale da cui non ho ritenuto di poter mai derogare. Tanto per fare un esempio: grazie alla mia professionalità, in quegli anni ero accreditato anche presso ambienti sociali esclusivi, come quelli dell’aristocrazia romana. O anche della famiglia reale in esilio a Oporto.
Ma mai ho pensato di utilizzare quegli accrediti per prestarmi a facili operazioni da rotocalco scandalistico. Mi sono sempre rifiutato di cedere i miei servizi per operazioni del genere.
Il paparazzismo l’ho subito percepito per quello che effettivamente era: il segnale di un processo di decadimento della stampa italiana. Piuttosto che documentare la storia politico-sociale del Paese, la fotografia cominciò a preferire lo scoop sensazionalistico inseguendo personaggi di dubbio interesse come, per esempio, l’amante del re egiziano Farouk.
Ma nelle mie immagini non c’è mai stato alcun cedimento al voyeurismo fotografico e allo scandalismo.
Ho sempre cercato di rappresentare, interpretandola, la realtà politico-sociale italiana del tempo, di fare foto di costume, di dare spessore culturale alla mia attività fotografica.
Si comprendono quindi i motivi che mi hanno indotto a non seguire la deriva in atto: se l’avessi fatto avrei mortificato la mia storia professionale.
lucy franco lucy franco   Messaggio 6 di 17
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Quale è stata la sua scelta allora?

Ho cercato di mettere la mia esperienza professionale al servizio di cause migliori. In particolare, ho lavorato molto per lo Stato Maggiore dell’Esercito. Inizialmente mi è stato commissionato un reportage sull’Accademia militare di Modena. Da lì è nata una collaborazione stabile che negli anni ha prodotto tanti lavori. Ma la cosa importante è che ho cercato di rappresentare l’ambiente militare utilizzando lo stesso sguardo degli anni in cui collaboravo con Il Mondo.
lucy franco lucy franco   Messaggio 7 di 17
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Una domanda sugli aspetti tecnici ed espressivi della fotografia digitale. Non può non sorprendere la sua scelta recente di misurarsi con essa. Lei che ha vissuto così intensamente e a lungo l’era dell'analogico. Cosa pensa della cultura digitale? La considera una disgrazia o un'opportunità?

Sono dell’idea che la fotografia digitale sia un mondo totalmente nuovo, uno strumento che offre nuove e interessanti possibilità espressive. E ritengo che essa possa contribuire a far uscire la fotografia dalla grave crisi in cui è sprofondata dagli anni ’70 in poi. Naturalmente , con le opportunità, vanno esplorati anche i suoi limiti. Per esempio, per quanto riguarda la fase della ripresa, la macchina digitale ha la pretesa di sostituirsi al fotografo, tende a prendergli la mano, a ‘ingessarlo’ nel momento in cui gli mette a disposizione tante funzioni e automatismi. Ma le innovazioni – questo è il punto - vanno bene se facilitano, un po’ meno se sovrastano lo spirito creativo del fotografo.
Quanto alla post-produzione, la tecnologia digitale offre una serie di strumenti potenti che ampliano le possibilità di intervenire sull’immagine. Tanto che in molti è forte la preoccupazione per la radicalità e la profondità di tali interventi, percepiti come vere e proprie manipolazioni, eticamente scorrette. Ma va detto senza ipocrisia che la post-produzione è stata sempre praticata, anche nel tempo dell’analogico. La fotografia in bianco e nero cos’era se non un’alterazione della realtà? Di più, in camera oscura, si è sempre intervenuto sull’immagine: alleggerendo, scurendo, intervenendo con mascherature settoriali. Questa libertà di intervendo ce la siamo sempre presa: semplicemente, rispetto a oggi, gli interventi erano più approssimativi perché la tecnologia del tempo era limitata. Mentre il digitale mette a disposizione strumenti molto avanzati. Ma non per questo dobbiamo negare al fotografo la possibilità di intervenire creativamente sull’immagine. Oggi come ieri. Non si capisce per quale motivo riconosciamo tale diritto alla pittura, ma lo neghiamo alla fotografia. Si può e si deve intervenire sul nuovo mezzo digitale. L’arte fotografica non deve solo documentare. Può anche, e soprattutto, emozionare, è un suo imperativo. E’ logico e giusto quindi che si serva di tutti gli strumenti a disposizione per poterlo fare.


Paolo Verdarelli
Ultima modifica di lucy franco il 13.01.14, 23:39, modificato 1 volta in totale.
lucy franco lucy franco   Messaggio 8 di 17
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Un immenso "Grazie" a Paolo Verdarelli per questa straordinaria collaborazione, che ha permesso a tutti noi di conoscere più approfonditamente il pensiero di un grande nome della fotografia contemporanea , come Paolo di Paolo.
Maricla Martiradonna Maricla Martiradonna   Messaggio 9 di 17
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Che bellissimo regalo, oggi... Grazie a Paolo Verdarelli che ha voluto condividere questo incontro speciale con tutti noi, e grazie a Lucy che lo ha prontamente accolto e proposto.
Mi colpisce la contrapposizione espressa da Paolo Di Paolo tra un modo "etico" e integrale di vivere la fotografia e la bassa ricerca della spettacolarizzazione, che solletica le curiosità più vacue di un "pubblico" di cui si vuole il consenso a costo di qualsiasi compromesso. Concetti di cui discutiamo tante volte qui su fc, da anni e anni, ma che in queste parole e nel contesto descritto acquistano uno spessore ben diverso...
Ho trovato interessantissime anche le osservazioni di Paolo Di Paolo sul digitale e le sue risorse: semplici, oneste e dirette, pragmatiche, senza false ipocrisie e ciechi snobismi che cadono dall'alto, come spesso avviene.
Leggere poi che "L’arte fotografica non deve solo documentare. Può anche, e soprattutto, emozionare"... be', per me, è una grande lezione...!
Grazie!
Paolo Verdarelli Paolo Verdarelli Messaggio 10 di 17
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Non può non colpire l'integrità morale di Paolo di Paolo di fronte alla degenerazione del giornalismo italiano. Poteva fare una scelta di comodo, arruolandosi nell'esercito dei vincitori. Ha scelto diversamente, merito della sua grande dignità di fotografo e dell'amore per la professione. Ci sono momenti in cui l'intellettuale deve prendere posizione, anche se scomoda, e non voltarsi dall'altra parte, facendo finta di niente o, peggio ancora, rinnegando il proprio passato. Oggi siamo in grado di capire la grandezza di quella scelta: quanti bravi giornalisti, in questi ultimi anni, per convenienza sono saltati sul carro del vincitore?
cristian volpara cristian volpara Messaggio 11 di 17
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Poche parole quelle di Paolo di Paolo.....che danno però spunto a molte riflessioni.
Ringrazio Paolo Verdarelli per averle condivise con noi :)
E a Lucy per aver fatto da tramite :-)
Stefano G. Spedicato Stefano G. Spedicato Messaggio 12 di 17
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mi trova totalmente d'accordo sopratutto questo passaggio
"Mentre il digitale mette a disposizione strumenti molto avanzati. Ma non per questo dobbiamo negare al fotografo la possibilità di intervenire creativamente sull’immagine. Oggi come ieri. Non si capisce per quale motivo riconosciamo tale diritto alla pittura, ma lo neghiamo alla fotografia. Si può e si deve intervenire sul nuovo mezzo digitale. L’arte fotografica non deve solo documentare. Può anche, e soprattutto, emozionare, è un suo imperativo. E’ logico e giusto quindi che si serva di tutti gli strumenti a disposizione per poterlo fare.
" Vorrei ricordare che A.Warhol fu un precursore della fotografia creativa partendo dalla sua pittura. Che dire un'intervista che arrichisce il nostro bagaglio culturale e fotografico. complimenti x la realizzazione e x l'idea.
Paolo Verdarelli Paolo Verdarelli Messaggio 13 di 17
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Sono d'accordo con Stefano: la fotografia documenta, ma può anche emozionare e usare tutti i mezzi a sua disposizione per farlo. Qui si pone l'eterno problema della legittimità dell'intervento del fotografo. Quante volte la libertà creativa del fotografo viene negata? Anche da parte degli stessi fotografi? Volendo stabilire dei confini netti oltre i quali non si è autorizzati ad andare? Un esempio tra i tanti: si accettano artifici in fase di ripresa (il mosso, l'uso di filtri, le esposizioni multiple, ecc.); molto meno si consente di intervenire in fase di post-produzione. Perché? Forse la manipolazione in ripresa è più 'naturale'? Mentre quella in post è considerata doping?
I puristi si ergono a difesa della tradizione: ma Di Paolo stesso ci dice chiaramente che nel tempo dell'analogico gli interventi in camera oscura si facevano, eccome. E che lo stesso b/n va visto come una trasfigurazione della realtà. Solo che il b/n è una manipolazione accettata. Semplicemente perché le foto in b/n sono molto piacevoli da guardare.
Secondo me, l'unico limite è questo: da una parte il fotografo deve avere la piena consapevolezza degli strumenti che usa, deve dare un'impronta personale al processo creativo e non affidarsi agli automatismi della tecnologia; dall'altra, l'osservatore deve esercitare una funzione di 'controllo' ed esprimere un giudizio sul risultato finale.
vog2 vog2 Messaggio 14 di 17
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Da un punto di vista “storico” mi preme fare alcune precisazioni circa la nascita sviluppo e declino del fotogiornalismo in Italia
Il panorama giornalistico italiano tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei ‘60 era occupato da numerose riviste che , sull’onda del boom economico e dello sviluppo sia industriale che culturale del paese , vedi solo per esempio l’avvento della TV, erano molto indirizzate a documentare le trasformazioni della società italiana, i nuovi costumi e gli usi e i costumi. Una stampa che si occupava di “cronaca leggera” era anche fortemente assistita ed alimentata dal forte interesse internazionale che la felice stagione cinematografica italiana favoriva .. basti pensare agli anni della Dolce Vita e alla nascita della figura del paparazzo.
In quella originaria direzione si muovevano tra le altre Il Mondo ( seppur con un taglio culturale più elevato) , Cronaca Italiana e Le Ore che potevano contare su uno staff interno di fotografi di grandissimo livello agevolati da editori e direttori lungimiranti
Naturalmente la documentazione giornalistica di quel periodo poteva prendere due strade differenti. Quella della stampa scandalistica legata ad eventi leggeri o quella più impegnata a leggere le trasformazioni sociali. La prima di stampo “ nazional- popolare” garantiva maggiore interesse e quindi maggiori vendite ed è purtroppo è l’unica, anche se in modo molto peggiore rispetto a prima, ad oggi sopravvissuta forse per l’innata curiosità degli italiani di sapere che cosa indossa la Belen di turno sotto il vestito. Al secondo filone più interessato ad una documentazione sullo stato della società appartenevano altre testate come appunto il Mondo a cui dal punto di vista fotografico appartenevano personaggi come Mario Dondero , fotografo de Le Ore settimanale di area socialista e Uliano Lucas pure lui di stanza a Il Mondo. Nella storia sono rimasti i loro reportage sui “ migrantes” che dal Sud arrivavano al Nord in cerca di fortuna.
La situazioni andò avanti a cavallo degli anni ’60 e produsse una sorta di l'FSA (Farm Security Administration) di roosveltiana memoria andando con i reportage di Soldati, Montanelli, Zavoli e Biagi a documentare le situazioni e anche le contraddizioni di un paese che da rurale stava diventando industriale.
Ciò che sconvolse la situazione italiana e non solo quella del mondo editoriale furono alcuni eventi che verso la seconda metà degli anni ‘60 sconvolsero completamente il mondo e di riflesso obbligarono una l’editoria a modificare il centro del proprio fare giornalismo: il 68 , la guerra del Vietnam, e gli eventi della Primavera di Praga . A tali avvenimenti si formava un “ movimento” variegato per appartenenza e modi di espressione che olttre a prendere atto di quanto avveniva ne voleva essere parte.
Il pubblico doveva e voleva essere messo a conoscenza di ciò che accadeva nel mondo e le testate che non seppero dare risposta a questa nuova richiesta o esigenza del mercato caddero nel dimenticatoio fino a dover chiudere. Il Mondo chiuse i battenti nel 66 poco prima quindi , Le Ore nel ‘67 rinascendo alcuni anni più tardi come rivista pornografica .
La grande stagione del giornalismo italiano a mio avviso non nacque prima del 68. Basti pensare a Epoca ed allo staff dei fotografi Vittoriano Rastelli ( unico italiano inviato di life) Mauro de Biasi , Mauro Galligani Giorgio Lotti . oppure a Panorama che attraverso la collaborazione con Der Spiegel poteva contare sui reportage di Terzani o l’Europeo che annoverava tra le sue firme quella di Oriana Fallaci . Gli articoli di questi grandi giornalisti erano accompagnati da reportage fotografici di valore assoluto.
Ulteriore grande slancio ad un fotogiornalismo impegnato su un altro versante , differente da quello di denuncia fu lla Conquista della Luna ( memorabile il servizio di Epoca) che aperse un filone di documentazione e soprattutto divulgazione scientifica prima quasi inesistente.
A mio avviso quindi l’alternativa che si poneva dinnanzi alle riviste italiane a cavallo degli anni 60 e 70 era duplice : essere più “ leggeri” oppure “ andare in guerra” e fino agli anni 80 ebbe ragione chi seppe guardare oltre a quanto avveniva in casa propria cercando, anche grazie all’esempio di grandi testate straniere Life e Time per prime, di coprire gli avvenimenti di interesse mondiale. Certo è che tale colpa non si può imputare ai fotografi ma comunque da punto di vista storico appunto non mi pare che l’unico sbocco professionale fosse quello di passare dalla fotografia dell’emigrante con la valigia di cartone sotto il Pirellone a riprendere Walter Chiari che si scaglia contro un fotografo .
Ritengo invece scarsamente “ produttivo” incentrare questa discussione sulla presunta conflittualità tra il sistema analogico e quello digitale. è sterile a mio avviso, avrei preferito una discussione che sviluppasse i temi della trasformazione della comunicazione correlata ai mutamenti della società moderna negli ultimi cinquanta anni . si aveva a disposizione un ottimo testimone.
Analogico o digitali sono solo due strumenti per documentare gli eventi , non sono conflittuali tra loro. l’uno è evoluzione dell’altro mentre invece le modalità e i temi d’interesse della cultura giornalistica italiana e la loro rispondenza alle richieste della società potevano essere a mio avviso il punto centrale e di maggiore interesse di una discussione come questa.
Altra cosa sarebbe argomentare sul concetto di “ significato” del processo creativo della fotografia attraverso l’evoluzione del mezzo tecnologico , ma certamente questo argomento solo a latere tocca la storia di un fotoreporter di cronaca
vog2 vog2 Messaggio 15 di 17
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Aggiungo pure un mio breve pensiero a proposito della 8 presunta) cultura digitale

l'idea di “cultura digitale” proviene da un famoso editoriale apparso sulla rivista di architettura Domus del 1989 ( mi pare) a firma di Peter Eisenmann dal titolo " l'architettura nell’epoca dei media elettronici" che faceva seguito ad una grande mostra organizzata da Philippe Johnson al MOMA ( mi pare … vado a memoria) del 1988 intitolata “Costruttivismo e De- costruttivismo" .
il nocciolo dell'intervento di Eisenmann era quello che l'evoluzione dell'architettura nei secoli si era sviluppata di pari passo ai nuovi metodi di rappresentazione che, a partire dalla rappresentazione bidimensionale, avevano introdotto attraverso l’assonometria e la prospettiva la possibilità di rappresentare lo spazio comunque e sempre secondo nuovi schemi di rappresentazione . Ma cosa ancora più importante come il fare dell’architettura avesse assunto da tali sistemi di rappresentazione stimoli per creare nuovi tipologie di spazi che , di volta in volta anche in unione a nuove possibilità tecniche e tecnologiche prima non potevano essere realizzati forse anche perché non potevano essere rappresentati.
fatto salvo che i sistemi costruttivi sono da sempre tre : quello trilitico (tipico del tempio, pilastro + architrave), quello spingente ( proprio del gotico, ad archi di forza ) e quello asta e nodi ( delle palafitte o in epoca moderno delle strutture tridimensionali leggere) solo attraverso l’invenzioni di nuovi metodi di rappresentazione dello spazio la ricerca del fare è riuscita a i realizzare nuove forme evolvendosi .
la progettazione con strumenti digitali e, di conseguenza, la rappresentazione digitale dello spazio ha fatto si che ai tre sistemi se ne sia aggiunto un quarto che pur non influendo sulla tecnica costruttiva ha permesso di creare una percezione differente dello spazio introducendo il concetto di “flusso continuo ” e di “percezione spazio- temporale” dello spazio architettonico che prima non esisteva e di rappresentarlo coerentemente
Il Guggenheim Museum di Bilbao ne è l’esempio più eclatante.

Quindi l’architettura da spazi cartesiani definiti principalmente dal piano bidimensionale si è evoluta in spazi in cui le tre dimensioni assumevano uguale valore per poi, con l’avvento del digitale, introdurre una ulteriore dimensione che attingeva la propria conformazione da elementi alla base del linguaggio digitale ad esempio la geometria booeliana.
Il digitale ha quindi reso possibile una “ nuova architettura” che prima non esisteva.
Questa lunga premessa non vuole altro che affermare che in fotografia a mio avviso la “rivoluzione digitale” introdotta da un nuovo mezzo non è stata, almeno fino ad ora, in grado di creare una nuova fotografia che prima non fosse possibile. Si è passati dal sistema analogico equiparabile a quello bidimensionale a quello elettronico senza però a mio avviso riuscire a “ creare” o quantomeno a modificare in modo radicale la rappresentazione dello spazio fotografato che è ancora tale e quale a quello dei primordi. E molto spesso la discussione si ferma solo e solamente alla contrapposizione tra i due mezzi tecnici . Troppo semplice….
A mio avviso il mezzo elettronico non ha generato una “nuova fotografia” ma è andato in continuità con quella esistente pur introducendo alcune innovazioni che hanno però soprattutto riguardato le modalità del “come” ottenere il risultato piuttosto che quelle di rispondere al “perché”.
Il “perché” non può essere limitato alle solite argomentazioni per lo più gradite alle masse e legate ad una apparente “democraticizzazione “ della fotografia digitale rispetto a quella che l’ha preceduta , è troppo semplicistico come lo è anche sostenere che il nuovo mezzo abbia dato nuove possibilità espressive, o consenta di fare cose prima impossibili . Ciò è nella sua essenza più profonda falso
Una vera “fotografia digitale” che determinerebbe la nascita di “nuova cultura ( fotografica) digitale” tale da distinguersi, nella sua essenza più profonda, completamente da quella che l’ha preceduta mantenendone però invariata la modalità di rappresentazione del risultato non è ancora nata . E non so se mai nascerà perché ormai pratica troppo massificata.
mentre l’Acropoli di Atene è distante anni luce da Geuggenheim di Bilbao un paesaggio di Fox Talbot è assolutamente identico ad uno di Salgado … probabilmente ci vorrà molto tempo , come in architettura, … duemila anni circa.
Una ultima cosa non capisco come la cultura sia essa digitale che di qualsiasi altro tipo possa essere definita “disgrazia” o “ opportunità” casomai è l’utilizzo del mezzo che può far nascere orrori o capolavori ma ciò non dipende da una scatoletta con un po’ di elettronica dentro ma da chi pesta il tastino … chi può far cultura in fotografia tanto per intendersi è solo ed esclusivamente il fotografo indipendentemente da cosa usa
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