Vivian Maier

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Credo sia un onore conoscere Vivian Maier attraverso le sue fotografie. Le sue immagini non si possono dimenticare, ti restano dentro, incise nella maniera più viva. C’è una sorta di genio in lei, una donna di una semplicità unica che non aveva mai frequentato nessun corso di fotografia ma con la sola e pura passione dell’immagine, del mondo cinematografico. Devo la sua conoscenza ad una cara amica, con la quale condivido la mia ricerca fotografica. Dopo la visione di alcune foto di Vivian ti senti pieno, appagato da questo mondo magico e pieno di umanità che lei ha saputo raccontare in maniera professionale e con un’attenzione tale che ti resta la meraviglia incollata negli occhi per giorni.

Grazie a tutti i visitatori del forum, a Lucy e allo staff per l’opportunità che mi è stata data.

Riporto qui di seguito alcune notizie trovate sul web.

E ora godetevi le foto di tata Maier!
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Vivian Maier è una delle esponenti più apprezzate di quel genere fotografico oggi generalmente definito “fotografia di strada” (street photography), sebbene gran parte delle sue opere siano state scoperte solo pochi anni fa. Nacque nel 1926 a New York ma trascorse diversi anni in Francia, prima di tornare negli Stati Uniti nel 1951. Si formò da autodidatta, come molti altri fotografi di quegli anni, e si specializzò in un genere favorito dalla diffusione di nuove macchine fotografiche più comode da trasportare e semplici da usare. Per molto tempo lavorò anche come governante presso famiglie benestanti: per tutto il tempo in cui visse in affitto – praticamente da spiantata – mise da parte moltissimo materiale che è stato scoperto soltanto in tempi molto recenti (Maier è morta nel 2009 a Chicago, dove si era trasferita nel 1956).
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Per tutta la vita aveva fotografato americani medi per le strade dello shopping con uno sguardo triste. Dopo la sua morte un collezionista ha comprato all'asta 40mila negativi, 15mila da sviluppare, e ha pubblicato il suo tesoro su un blog. Alcuni libri di sue fotografie sono già stati pubblicati.

Questo il sito che riguarda tutto il suo lavoro e la sua vita.
http://www.vivianmaier.com/

A novembre scorso la galleria nazionale del Jeu de Paume – uno spazio pubblico di fotografia e arte contemporanea che si trova nel giardino delle Tuileries, a Parigi – aprì una mostra dedicata a Vivian Maier ( Vivian Maier (1926-2009), une photographe révélée), e fu la prima grande mostra dedicata al lavoro di Maier.
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Anziane impellicciate che guardano stizzite l'obiettivo, uomini con i cappelli che fumano sigari, bambini che piangono accuditi da mammine eleganti. Venti anni di storia americana, fotografata per le strade di Chicago rigorosamente in bianco e nero con una macchina Rolleiflex medio formato, tornano alla luce, online, grazie a un collezionista fortunato. L'autrice di questi mirabili scatti, esempi preziosi di street photography, è la francese Vivian Maier: arrivata negli Stati Uniti negli anni '30, impiegata prima come commessa e poi come bambinaia, morta in disgrazia nel 2009 e solo oggi celebrata come una fotografa di successo. Ha scattato ininterrottamente fino agli anni '90 per poi conservare migliaia di negativi mai stampati tutti per sé, senza mostrarli mai a nessuno.
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Ma nel 2007, a causa di alcuni pagamenti insoluti, parte della produzione di Vivian viene ceduta, insieme ad altri mobili d'epoca, chiusa in un armadietto di archiviazione. I mobili vengono messi all'asta e 40mila negativi, dei quali circa 15mila ancora all'interno di rullini non sviluppati, vengono acquistati per poche centinaia di dollari da John Maloof, fotografo per passione e agente immobiliare per professione, in cerca di materiale fotografico per la scrittura di un libro sui quartieri di Chicago. È lui a decidere di far conoscere al mondo l'opera di Vivian pubblicando parte delle immagini acquisite sul blog Vivian Maier - Her discovered work. Sboccia così, a metà tra la leggenda e la virtualità, il mito di Vivian Maier, la fotografa del mistero della quale si conoscono rare notizie biografiche e il cui viso si intravede solo in alcuni autoscatti.


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Nata in Francia il 1 febbraio 1926, la ragazza arriva negli Stati Uniti negli anni '30 e vive per alcuni anni a New York lavorando come commessa in un negozio di caramelle. Dagli anni '40 in poi si trasferisce a Chicago, dove viene assunta come bambinaia in una famiglia del North Side. Appassionata di cinema europeo, impara l'inglese andando a teatro, veste abiti e scarpe da uomo e indossa grandi cappelli. Una donna che non amava parlare, così la ricordano gli impiegati nello storico negozio di apparecchiature fotografiche di Chicago Central Camera, e i suoi ultimi giorni li ha trascorsi in una casa pagata dai tre ragazzi che aveva accudito fino agli anni '60. Sono loro, raggiunti da Maloof in un tentativo di ricostruire la biografia della fotografa, a raccontare di una donna misteriosa, socialista, femminista e anti-cattolica, che scattava fotografie in continuazione.


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Maloof aveva cercato di contattarla circa un anno dopo l'acquisizione della collezione, dopo aver scoperto il suo nome, scritto a penna con una accurata grafia di altri tempi, a margine di una busta porta negativi. Digitando le parole Vivian Maier su Google aveva trovato però solo un annuncio mortuario. "Vivian Maier, nata in Francia e residente a Chicago negli ultimi 50 anni è morta serenamente lo scorso lunedì - recitava così il necrologio apparso su un quotidiano locale - Seconda madre di John, Lane e Matthew. Uno spirito libero che ha magicamente toccato le vite di chi la conosceva. Critica cinematografica e straordinaria fotografa". Paradossalmente la donna era morta il giorno prima dell'inizio delle ricerche di Maloff. La storia di Vivian, dei suoi soggetti che a tratti ricordano l'asperità dei personaggi di Diane Arbus, dei suoi rullini non sviluppati e della sua tecnica unica, diventa per lui quasi un'ossessione. L'agente decide di comprare una Rolleiflex come quella di Vivian e di scendere per le vie di Chicago per ripercorrere le sue tracce. Capisce così il valore di quegli scatti, la difficoltà di cogliere quelle espressioni, e decide di pubblicare l'opera online. In attesa di scrivere un libro sulla fotografa del mistero. Una storia in continua evoluzione che non smette di affascinare i centinaia di blogger che visitano il sito dedicato alla Maier Lì, una sezione speciale dal titolo Unfolding the mistery of Vivian Maier, ovvero svelare il segreto di Vivian Maier, raccoglie le poche informazioni e invita i visitatori a contattare l'autore in caso di altre notizie sulla donna. E mentre tutti i negativi sono stati scansionati ci sono ancora circa 600 rullini che attendono di essere sviluppati. Nella collezione acquisita da John solo un paio di immagini sono state stampate in piccolo formato da Vivian, quanto basta per pensare che nelle volontà della fotografa non ci fosse l'idea della divulgazione e dell'esposizione di questi incredibili scatti. (30 gennaio 2010)


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Alcune sue foto a colori


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In un articolo pubblicato su Repubblica, lo scrittore Alessandro Baricco ha raccontato di una sua visita a una mostra di Vivian Maier allestita a Tours, città della Francia centro-occidentale.
La tata con la Rolleiflex
Si chiamava Vivian Maier, e se il nome non vi dice niente, la cosa è abbastanza normale. Nella vita faceva la tata, lo stesso mestiere di sua madre e di sua nonna: lo faceva per le famiglie upper class di Chicago, e lo faceva bene, con limitato entusiasmo, pare, ma con inflessibile diligenza. Lo fece per decenni, a partire dai primi anni Cinquanta: i suoi bambini di allora adesso sono adulti che, piuttosto increduli, si vedono arrivare giornalisti o ricercatori che vogliono sapere tutto di lei. Un po’ spaesati, annotano che non è il caso di immaginarsi Mary Poppins: era un tipo maniacalmente riservato, un po’ misterioso, piuttosto segreto. Faceva il suo dovere, e nei giorni di vacanza, spariva. Non c’è traccia di una sua vita sentimentale, non pare avesse amici, era solitaria e indipendente. Non scriveva diari e che io sappia non ha lasciato dietro di sé una sola frase degna di memoria. Le piaceva viaggiare, naturalmente sola: una volta si fece il giro del mon-do, così, perché le andava di farlo: è anche difficile capire con che soldi. Una cosa che tutti ricordano di lei è che accatastava oggetti, fogli, giornali, e la sua stanza era una specie di granaio della memoria, immaginato per chissà quali inverni dell’oblio. Collezionava mondo, si direbbe. L’altra cosa che tutti ammettono è che sì, in effetti, girava sempre con una macchina fotografica, le piaceva scattare foto, era quasi una mania: ma certo, da lì a immaginare quel che sarebbe successo… Quel che è successo è questo: arrivata a una certa età, tata Maier si è ritirata dall’attività, si è spiaggiata in un sobborgo di Chicago e si è fatta bastare i pochi soldi messi da parte. Dato che accatastava molto, come si è visto, affittò un box, in uno di quei posti in cui si mettono i mobili che non stanno più da nessuna parte, o la moto che non sai più che fartene: ci ficcò dentro un bel po’ di roba e poi finì i soldi, non riuscì più a pagare l’affitto e quindi finì come doveva finire.


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Quelli dei box, se non paghi, dopo un po’ mettono tutto all’asta. Non stanno nemmeno a guardare cosa c’è dentro: aprono la porta, gli acquirenti arrivano, danno un’occhiata da fuori e, se qualcosa li ispira, si portano via tutto per un pugno di dollari: immagino che sia una forma sofisticata di gioco d’azzardo. L’uomo che si portò via il box di tata Maier si chiamava John Maloof. Era il 2007. Più che altro si portò via scatoloni, ma quando iniziò a guardarci dentro scoprì qualcosa che poi avrebbe cambiato la sua vita, e, immagino, ingrassato il suo conto in banca: un misurato numero di foto stampate in piccolo formato, una marea di negativi e una montagna di rullini mai sviluppati. Sommando si arrivava a più di centomila fotografie: tata Maier, in tutta la sua vita, ne aveva visto forse un dieci per cento (pare non avesse i soldi per lo sviluppo, o forse non le importava neanche tanto), e non ne pubblicò nemmeno una. Ma Maloof invece si mise a guardarle per bene, a svilupparle, a stamparle: e un giorno si disse che o era pazzo o quella era una dei più grandi fotografi del Novecento. Optò per la seconda ipotesi. Volendo credergli, si mise anche a cercarla, questa misteriosa Vivian Maier, di cui non sapeva nulla: la trovò, un giorno del 2009, negli annunci mortuari di un giornale di Chicago. Tata Maier se n’era andata in silenzio, probabilmente in solitudine e senza stupore, all’età di 83 anni: senza sapere di essere, in effetti, com’è ormai chiaro, uno dei più grandi fotografi del Novecento. La prima volta che ho incrociato questa storia ho naturalmente pensato che fosse troppo bella per essere vera. Tuttavia le foto erano davvero pazzesche, tutte foto di strada, quasi tutte in bianco e nero: pazzesche. Così ho setacciato un po’ il web scoprendo che in effetti il mito della Maier era già lievitato niente male, sebbene all’insaputa mia e dei più: mostre, libri, perfino due film, uno prodotto dalla Bbc: insomma, se era un falso, era un falso fatto maledettamente bene. Quindi una certa curiosità continuava a ronzarmi dentro finché ho scoperto che a Tours, amabile cittadina della provincia francese, neanche poi tanto lontana, c’era una mostra dedicata a tata Maier.


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Utente cancellato Utente cancellato Messaggio 11 di 26
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Non so, ho pensato che volevo andare a vedere da vicino, a toccare con mano, a scoprire qualcosa. Insomma, alla fine ci sono andato. Dopotutto, Tours è anche il posto in cui è nato Balzac, un pellegrinaggio letterario non ce lo si nega mai, potendo. (Balzac, lo dico per inciso, è una lettura molto particolare. Quel che ho capito io è che per apprezzarlo veramente bisogna leggerlo in alcuni, circoscritti, momenti della vita: quelli in cui si vive con un filo di gas. Non saprei definirli in altro modo, quindi fatevi bastare questa definizione. Ma è certo che se uno è felice, Balzac è palloso, se uno sta male davvero, Balzac è inutile. Quando state lì, sospesi tra una cosa e l’altra, leggerlo è una delizia. Ah, un’altra cosa su Balzac, se posso approfittare della parentesi: io sono convinto che quando parliamo di letteratura intendiamo una cosa che è nata nel passaggio da Balzac a Flaubert ed è morta nell’ultima pagina della Recherche: il resto è un lunghissimo, geniale e grandioso epilogo, in certo senso perfino più interessante. Fine della digressione). Tours era una città mirabile, una volta: per i francesi era la capitale di riserva, quella che stava in panchina e entrava in campo quando Parigi dava forfait. Adesso è rimasto poco, e questo perché degli allegri ragazzoni america-ni, nei loro bombardieri, l’hanno spianata cercando di centrare il ponte sulla Loira, e presumibilmente facendolo con una certa generosità di mezzi o deficienza di mira, non so. Alla fine è rimasto poco. Nel poco, una sfolgorante cattedrale, una di quelle che offrono il privilegio di pronunciare l’elegantissima frase. Sono entrato nella cattedrale ad ammirare le vetrate (blu e rossi magnifici, un’emozione, se posso dire la mia). E poi un castello, almeno un pezzo del castello, proprio sulla riva del fiume: ed è lì che tenevano tata Maier.
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Ingresso gratuito, devo registrare. Francesi. Insomma, sono salito al primo piano, e lei era lì. Foto che, quando andava bene, lei si era vista in un formato che stava nel portafogli, sfavillavano belle grandi sulla pareti bianche: formato quadrato, stampa impeccabile. Come ho detto, sono tutte foto rubate per strada: per lo più gente, ma anche simmetrie urbane, cortili, muri, angoli. Un cavallo morto su un marciapiede, le molle di un materasso abbandonato. Ogni volta, tutto perfetto: la luce, l’inquadratura, la profondità. E, sempre, una specie di equilibrio, di armonia, di esattezza finale. Come facesse, non si sa. Voglio dire, per azzeccare il ritratto di un passante e ottenere qualcosa di quella intensità, e forza, e impeccabile bellezza, bisognava avere un talento mostruoso. Lei l’aveva. Aveva dodici colpi, nella sua Rolleiflex, per ogni rullino. Dato che poi li teneva a marcire in un box, quei rullini, noi adesso possiamo vedere come sparava: mai due colpi sullo stesso bersaglio. Se ne concedeva uno, le era estranea l’idea che nella ripetizione si potesse migliorare. L’unico soggetto a cui abbia dedicato ripetuti ritratti, inaspettatamente, è se stessa: si fotografava riflessa nelle vetrine, negli specchi, nelle finestre. L’espressione è tragicamente identica, anche a distanza di anni: lineamenti duri, maschili, sguardo da soldato triste, una sola volta un sorriso, il resto è una piega al posto della bocca. Impenetrabile, anche a se stessa. Le piacevano le facce, i vecchi, la gente che dorme, le donne eleganti, le scale, i bambini, le ombre, i riflessi, le scarpe, le simmetrie, la gente di spalle, la rovina e gli istanti. Si vede lontano un miglio che adorava il mondo, a modo suo — ne adorava l’irripetibilità di ogni frammento. Probabilmente le andava di produrre quello che ogni fotografia ambisce a produrre: eternità. Ma non quella friabile delle foto dei mediocri: lei otteneva quella, incondizionata, dei classici. Poi non so, magari mi sbaglio. Ma devo registrare il fatto che, nel caso, iniziamo ad essere molti, a sbagliarci. Quindi darei per buono che, in effetti, c’è un grande fotografo del Novecento in più. Naturalmente adoro l’idea che non abbia detto una sola frase sul suo lavoro, né abbia guadagnato un dollaro dalle sue foto, né abbia mai cercato una qualunque forma di riconoscimento. Ma la storia non è ancora finita, e magari, nel tempo, qualcosa verrà fuori, a incrinare tanta irreale purezza. Ma le foto resteranno, su questo è difficile avere dubbi. Tra l’altro, sfido chiunque a fissarle senza percepire, in un attimo di lucidità, la smisurata vigliaccheria del fotografare digitale: devo a tata Maier il mio definitivo disprezzo per Photoshop.
Le devo anche il fatto che poi sono uscito, tirava vento gelido, e pioveva orizzontale, a folate, mi sono rifugiato nella cattedrale di prima, giusto per non inzupparmi, e aspettando che passasse ho alzato gli occhi verso le vetrate, e nelle vetrate, spente dal cielo nero del temporale, le storie dei santi avevano quella bellezza uccisa che tante volte vedo negli umani, sempre cercando di trovarle un nome, senza trovarlo.


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Vincenzo Galluccio Vincenzo Galluccio Messaggio 13 di 26
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A guardare le foto di VIVIAN MAIER pensi due cose: aver incontrato un altro grande fotografo del Novecento, aver capito che Photoshop non serve alla grande fotografia. Grazie a Cristina Finotto per avermi svelato "la tata con la macchina fotografica".
cristian volpara cristian volpara Messaggio 14 di 26
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Ringrazio anch'io....che nella mia infinita ignoranza non conoscevo...
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grazie Vincenzo, grazie Cristian,
per me era una futurista :)
nella fotografia era avanti anni luce rispetto al tradizionalismo d'immagini di quel tempo...

anch'io ero ignorante fino a circa un anno fa, prima che la mia amica me ne parlasse :-)

Esiste un film documentario sulla sua vita "Alla ricerca di Vivian Maier"
qui qualche notizia in merito

http://www.telegraph.co.uk/sponsored/cu ... ian-maier/

un suo video in 8 mm

http://youtu.be/nXASDjCwxsE

Aprite questi file!! Che potenza le sue immagini!!


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