Mario Giacomelli

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Se vivessimo almeno un giorno,
se potessi vivere,
se io vivo,
non saprò mai se era vero
chiuderò gli occhi
e mi vedranno morire,
non ci sarà né prima né dopo,
lascerò la mia porzione
in un chiuso giardino di sogni
e in tutti i posti,
in tutte le vie,
staranno a raccontare
il rovescio della mia vita
dove muore la morte
non sapranno mai se era vero.
Mario Giacomelli


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Apro così questo mio piccolo omaggio al grande Mario Giacomelli, con una sua intensa poesia. La poesia farà sempre parte della sua vita e se ne vedranno i segni in tutti i suoi lavori fotografici. Questo fotografo lo voglio raccontare, riprendendo il titolo di uno dei suoi ultimi lavori fotografici. Ma perché proprio Mario Giacomelli? Perché lui mi commuove all’infinito tanta era la sua umanità e umiltà, la sua ricerca, il suo credo nell’Uomo lungo i segni della Terra. Di lui non conosciamo che le immagini di questa Italia che non ha mai lasciato, immagini gravi, silenziosamente nostalgiche. Un bambino troppo adulto che percorre un cammino troppo bianco, i giovani preti che giocano nella neve, i vecchi sulla soglia della morte, i paesaggi che si ergono come muraglie bruciate sono come i ricordi di un tempo già vissuto, un tempo d’irrimediabile solitudine. Che sia poeta e pittore non stupisce. Giacomelli è anche fotografo. Vero.
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Mario Giacomelli se non aveva mani che accarezzassero il suo volto, aveva occhi che sapevano raccontare, e sapeva riconoscere la guerra in tempi di pace, i segni, le ferite, le cicatrici della campagna e del mondo, la vita dal basso, schiacciata, senza colore, senza cielo. A Giacomelli non interessava la foto singola, ma la serie, il racconto. “Ciò che conta è quello che nasce nella mia mente”. Non era scanzonato come Fellini, era più estremo, non ne divideva il ritmo da Vitelloni, anche se le onde dell’Adriatico erano le stesse, piuttosto come Pasolini si lamentava di una perdita. E lui fotografa la scomparsa, le sue paure, le sue ossessioni, mascherandole dietro le serie. “La fotografia mi ha aiutato a scoprire le cose a interpretarle e rivelarle. Racconto la conoscenza del mondo, in una architettura interiore dove le vibrazioni sono un continuo fluire di attimi, di avventure liberanti come espressione totale dove sento tutta la completezza della mia esistenza”. Insieme poeta e filosofo, Giacomelli impara dalla guerra l’importanza del quotidiano; nasce una nuova fotografia, lontana dagli atelier, libera e spontanea. Utilizzando lunghi processi tipografici, presto comincia a liberare i suoi lavori da ogni traccia di materia, alla ricerca del significato autentico delle cose. Metafotografia.

«Io sono nato piccolo e rimango piccolo, con idee piccole; non c’è bisogno di essere grandi.»
Quanta umiltà in queste sue parole.


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http://www.mariogiacomelli.it/index.html
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Mario Giacomelli nasce a Senigallia nel 1925, è il maggiore di tre fratelli e all’età di 9 anni perde il padre. La madre trova lavoro come lavandaia presso il locale ospizio. La prematura perdita del padre, costringe Mario ad iniziare presto a lavorare come garzone in una tipografia di Senigallia, di cui diventerà in futuro proprietario. Il tempo della scuola viene sovente impegnato in tipografia, la magia della stampa lo cattura.
In questo ambiente senza istruzione, in un isolamento difficile da immaginare per i giovani di oggi, Giacomelli diventa pittore senza aver mai avuto contatti con un artista, senza aver mai letto un libro. Scrive poesie trovando nell’espressione artistica una dimensione al suo carattere schivo e taciturno. Nel 1947 conosce Anna Berluti, che sposerà qualche anno più tardi.
Il 1953 segna la svolta nella vita di Giacomelli, acquista infatti una macchina fotografica per 800 lire, una Comet Bencini e il giorno di Natale si reca sulla spiaggia per scattare la sua prima fotografia.
E’ solo di fronte al mare che lambisce la spiaggia con le sue onde e poiché è un pittore, cerca di usare la macchina come un pennello, scatta e la muove ottenendo il moto dell’acqua, ottiene così la sua prima fotografia “L’approdo”, è l’immagine della battigia carezzata da un’onda mentre dal mare affiora una scarpa di donna.


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Vicino alla tipografia abita una persona che tanto peso ha avuto nell’inserimento delle Marche sul dibattito che, a livello nazionale, si stava sviluppando sulla fotografia e che sarà il primo punto di riferimento di Giacomelli, quest’uomo è Giuseppe Cavalli che nel 1953, fonda a Senigallia il gruppo “Misa”, di cui Giacomelli e Piergiorgio Branzi rappresentano le “giovani speranze”.
L’apparecchio fotografico che Giacomelli userà per tutti i suoi lavori, esclusi i primi, era il risultato dell’unione di pezzi differenti, l’obiettivo era quello di una fotocamera Zeiss Bessa, mentre il corpo della macchina apparteneva ad una Kobell. In verità ne acquistò un’altra ma la tenne nell’armadio, perché non voleva che la prima “se ne accorgesse”.
Utilizza un medio formato anni trenta, senza esposimetro con una mascherina per ridurre il formato da 6x9 a 6x8. Cura i contrasti, utilizza la scarsa profondità di campo e il mosso. Nella grande tradizione del lavoro in bianco e nero, cerca una carta sufficientemente ricca d’argento per poter sviluppare punti specifici con tempi di sviluppo diversi. Giacomelli domina perfettamente la tecnica dello sviluppo con bianchi chiari e profondità variabile nei neri. È altrettanto aggressivo nella tecnica che nella scelta dei soggetti: talvolta graffia la pellicola, usa la sovraesposizione o gioca con i negativi. Adopera e domina i materiali per esprimere innanzi tutto un messaggio. Pur facendo ricorso a un vasto repertorio di tecniche, lo fa con parsimonia e con mezzi ridotti all’osso. In realtà, non ama le lunghe manipolazioni in laboratorio; preferisce passare dal soggetto al messaggio nel modo più diretto possibile. Quando interviene, lo fa da pittore; fa parte del messaggio ed è visibile. Giacomelli espresse al massimo il suo poco considerare l’inquadratura, la messa a fuoco, la perfezione tecnica di ripresa. Si concentrò sulla realtà, sulla gente, sulla campagna, sul lavoro. Diede vita a delle foto probabilmente lontane dalla purezza estetica ma cariche di un senso del reale e della vita raro nei fotografi a lui contemporanei. Rinunciando all’estetica Giacomelli presentò nelle sue immagini il frutto del suo spirito, la rappresentazione intima delle sue sensazioni ed emozioni. La sua fotografia si spoglia del suo essere documentazione. Le figure cessano di essere persone diventando fantasmi. Sembrano aggirarsi lentamente in un ambiente surreale, sembrano vivere in una realtà che non è realtà ma costruzione mentale dell’io del fotografo. Ha rappresentato un intimo inno alla solitudine esistenziale.
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Nel 1953 - 1954 PRIME OPERE
I soggetti in questo periodo sono diversi, e solitamente molto classici: ritratti, nudi, nature morte, fondamentali, queste ultime, per la costruzione compositiva dei suoi lavori futuri di cui dice: "Queste fotografie sono state fatte perché ho sempre avuto la sensazione che mentre fotografi, le "figure" non riescono a darti quello che vuoi, come impressione. Allora ci si rifugia in oggetti che sono già "morti" e che si possono usare per aggiungere qualcosa di se stessi".

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1954 PAESAGGI
Da questa data Giacomelli inizia una ricerca approfondita, che prosegue per tutta la sua esistenza, sul paesaggio campestre della sua regione in modo personalissimo e in maniera sempre più grafica.


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1955 - 1957 VITA D’OSPIZIO
A trent’anni si reca per la prima volta all’Ospizio di Senigallia, dove lavora sua madre, e con il permesso dei responsabili della struttura realizza i primi reportage sugli anziani. Vecchiaia, morte, inarrestabile scorrere del tempo: queste angosce esistenziali sono il pesante fardello che Giacomelli si porta dietro per tutta la vita.


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1957 SCANNO, LOURDES, ZINGARI
Nell’ottobre del 1957 visita e fotografa il paese di Scanno in Abruzzo. La foto più nota è quella delle donne scure e mosse che sembrano ruotare come se fossero la medesima figura ed il bambino che viene verso di noi restando a fuoco ed apparentemente fisso in mezzo a loro. John Szarkowski, direttore del dipartimento di fotografia del Museum of Modern Art di New York, la sceglierà per il volume Looking at Photographs, che raccoglie le 100 fotografie più significative del secolo.


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Quella che il fotografo trova a Scanno è l’Italia Anni Cinquanta, l’Italia di uomini col cappello e di donne a lutto che camminano, si fermano, parlano per le strade o davanti alle porte. Nessuno ha paura dell’obiettivo.


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Giacomelli tornerà a Scanno una terza volta, nel '95 senza però fotografare perché non ritrova più il contrasto del nero delle vesti, che aveva reso così forte l'impatto della prima serie. Scanno aveva già affascinato grandi fotografi, come Henri Cartier Bresson, che vi aveva visto la sopravvivenza in epoca moderna di figure e modi di vita antichi.

Nello stesso anno si reca a Lourdes dove fotografa la processione di fedeli che da tutto il mondo si incontrano per pregare la Madonna o per sperare in una guarigione.


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Del 1957 realizza in una sola mezz’ora una ricerca fotografica a degli zingari di passaggio nella sua città.


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1958 PUGLIA, LORETO
Giacomelli non ama viaggiare né allontanarsi dalla sua città, il suo mondo iconografico prende vita attorno o dentro Senigallia. Tuttavia nell’estate del 1958 si reca in Puglia, dove realizza un reportage sulla gente del Gargano, toccando paesini arroccati sul mare. Qui l’arretratezza sociale e la miseria si leggono sui volti della gente ed è questo che lui ricorda: “Scanno era la luce, la magia, la Puglia era la povertà”.


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Sempre nel 1958 è il primo di due reportage realizzati a Loreto per la festa della Madonna del Santuario. che si svolge ogni anno nella notte del 10 dicembre.


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1960 UN UOMO, UNA DONNA, UN AMORE
Questa serie d’immagini sono state scattate a Senigallia e raccontano l’amore di una coppia di ragazzi.


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1961 MATTATOIO
Composto da pochi scatti, “Mattatoio” è ambientato all’interno dei macelli di Senigallia. Le grida delle bestie brutalmente uccise sono il motivo per cui Giacomelli decide di non tornare a fotografare più quel luogo.


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1961 - 1963 IO NON HO MANI CHE MI ACCAREZZINO IL VOLTO
Il titolo si ispira a una poesia del 1948 di Padre David Maria Turoldo, le immagini descrivono i momenti di ricreazione nel Seminario Vescovile di Senigallia. L'effetto manuale di stampa amplifica l'effetto grafico e il contrasto con il nero delle tonache su uno sfondo che appare di sola luce bianca. L'idea del movimento è accentuata dalla bassa velocità che serve a creare immagini parzialmente sfocate, mentre la neve è scelta per l'effetto di contrasto e ideale per scatenare la voglia di gioco. Anche in questo caso, Giacomelli ha impiegato molto tempo per comprendere a fondo la vita dei seminaristi e conquistare la loro piena fiducia. Alla fine del lavoro, però, i rapporti si sono irrimediabilmente incrinati.


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1965 - 1967 LA BUONA TERRA
Le immagini di “La buona terra” ci introducono nella casa di una grande famiglia patriarcale marchigiana, con la quale stringerà un’amicizia che rimarrà immutata nel tempo, rivelandoci le usanze e gli avvenimenti che ne regolano la vita, basata sul rispetto e sull’aiuto reciproco.


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1966 - 1968 VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI, MOTIVO SUGGERITO DAL TAGLIO DELL’ALBERO
In questi anni Giacomelli torna a fotografare i vecchi all’Ospizio che con altre foto scattate precedentemente daranno vita alla serie “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” titolo di una celebre poesia di Cesare Pavese.


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Nel 1966 comincia un lavoro alla sezione degli alberi e sulle immagini fantastiche che si possono trovare nelle loro superfici.


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1971 - 1983 CAROLINE BRANSON, STUDI SUI SOGGETTI DEL NUDO E DEI GABBIANI
Nel 1971 inizia a lavorare a una serie che lo impegnerà per tre anni, ispirata all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, “Caroline Branson”, storia di un tragico amore.


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Nel 1972 intraprenderà una nuova attività lavorativa che lo impegnerà nei mesi estivi: l’apertura di un campeggio. Nel 1975 realizza una serie di foto di nudo, dal 1976 esperimenta il colore.


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Nell’83 esce il libro “Il Gabbiano Jonathan Livingston”, inizia una ricerca sui gabbiani che quasi gli costa la vita, cade nella discarica, in un fosso di spurgo e grazie al cavalletto, tenuto sempre allungato, riesce a salvarsi.


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1983 - 1984 FAVOLA, VERSO POSSIBILI SIGNIFICATI INTERIORI
Di questi anni è la serie intitolata “Favola, verso possibili significati interiori”, realizzata con immagini di ferri ritorti. Qui si avverte l’inizio di un periodo in cui Giacomelli si mostra sempre più affascinato dalla Poesia. Le immagini risultano sempre meno descrittive e sempre più riconducibili ad un mondo onirico.


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1983 - 1986 IL MARE DEI MIEI RACCONTI
In questi anni lavora ad una serie di fotografie aeree sul mare che raffigurano bagnanti sulla spiaggia di Senigallia.


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1984 - 1985 IL CANTO DEI NUOVI EMIGRANTI
Dopo aver letto i versi di Franco Costabile nel suo “Canto dei nuovi emigranti”, Giacomelli decide di vedere la Calabria con i propri occhi, venendo a contatto con una terra aspra e piena di contrasti e con persone il cui ricordo rimarrà vivo per molti anni.


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1984 - 1986 IL TEATRO DELLA NEVE
In questi anni il fotografo realizza delle serie fotografiche ispirate ad alcune poesie di Francesco Permunian: “Luna vedova per strade di mare”, “Ho la testa piena, mamma”. Questi due componimenti, che trattano il tema della visionarietà, del fantasmatico e della madre, fanno sentire Giacomelli molto vicino alla vicenda personale dello scrittore Permunian.


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1985 - 1987 NINNA NANNA
Questa serie riprende il titolo di una poesia di Léonie Adams che parla dell’ultimo barlume di ricordi di un’anziana donna. Mario usa le immagini fatte alcuni anni prima in ospizio.


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Nel 1987 muore la madre, a cui era molto legato, la madre la vedremo poi presente in moltissime sue immagini, i cui lineamenti erano molto simili a quelli del fotografo e che andranno ad accentuarsi sempre più con il tempo.


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1986 – 1990 FELICITA’ RAGGIUNTA, SI CAMMINA, A SILVIA, L’INFINITO, PASSATO
In questi anni Giacomelli lavora su alcune famose poesie di Montale, Leopardi e Cardarelli. In “Felicità raggiunta, si cammina”, di Montale, le immagini raccontano ombre, terra fatta di cieli, sedie vuote, l’unica immagine davvero felice è quella della bambina sull’altalena che vola senza paura.


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Alle poesie del Leopardi, Mario accosta immagini reali a immagini simboliche.


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Con la serie “Passato”, Giacomelli rende omaggio al poeta Vincenzo Cardarelli con una sua interpretazione personale.


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1990 – 1999 PASQUELLA E CANTAMAGGIO
Da queste due feste antiche marchigiane il poeta fotografo ne racconta la musica e il canto.


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1992 - 1993 IL PITTORE BASTARI
Dal 1992 Giacomelli scatta una serie di ritratti all’artista Walter Bastari. Il bianco e nero della stampa conferiscono alle immagini un aspetto irreale; in questa serie fanno la comparsa alcuni "oggetti non veri”, uccelli di plastica, un cane di gesso, una bambola, che nei seguenti lavori invaderanno lo spazio fotografico in maniera sempre più evidente, creando una sorta di teatro surreale allestito da Giacomelli stesso. Egli inoltre rafforza il legame tra le foto unendole a due a due come nel dare continuità ai suoi racconti fotografici che si avvicineranno sempre più all’introspezione.


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1992 – 1995 IO SONO NESSUNO, LA NOTTE LAVA LA MENTE
Da Emily Dickinson a Mario Luzi ancora una volta fonde il linguaggio della poesia con il suo, fatto di simboli ed immagini tra assenze e spazi vuoti.


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1997 – 1999 BANDO
Ispirato da una poesia di Corazzini, “Bando” rappresenta uno dei lavori più importanti dell’ultimo Giacomelli, in quei versi il poeta, con sarcasmo, mette in vendita le proprie idee in vista della sua fine imminente e Giacomelli risponde con un lavoro astratto che richiama fortemente le opere di Alberto Burri.


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1998 – 2000 LA MIA VITA INTERA
Giacomelli si avvicina agli ultimi anni della sua vita e si affida ai versi di Jorge Luis Borges per annunciare che il proprio cammino è prossimo alla fine. Tra le immagini il fotografo sceglie di raffigurare se stesso, per poi scomparire, mostrando il medesimo scenario vuoto nell’immagine successiva.


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1999 – 2000 QUESTO RICORDO LO VORREI RACCONTARE
All’età di 75 anni Giacomelli si spegne lentamente giorno dopo giorno. All’ospedale scatta la prima immagine della sua ultima serie, tornato in studio ci scrive sopra “Questo ricordo lo vorrei raccontare” rappresentando la speranza di poter dire di avercela fatta ancora una volta, di essere uscito dall’ospedale per tornare a casa, dove fino all’ultimo pensa ai mille progetti sulle cose che dovevano ancora venire.


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Non è facile spiegare la presenza della sua persona nelle ultime fotografie. È come se lui entrasse dentro di sé e ne uscisse purificato. In questa qui sotto Mario sembra essere una donna con il seno, ma invece si era solo messo un cappello sotto la maglia, forse voleva sembrare sua madre, lui si faceva crescere persino i capelli per rassomigliarle; e l’ombra di Giacomelli si fa presenza e assenza con la gioia di essere partecipe della scena.


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Messaggio moderato il 25.03.13, 10:29.
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Nel corso della sua vita partecipa e vince molti concorsi fotografici prestigiosi. Espone in moltissime parti d’Italia e all’estero. Collabora ad illustrare pubblicazioni. Il MOMA di New York acquista la sua serie fotografica di Scanno.
Negli ultimi mesi lavora alla sua retrospettiva di Roma, dove non voleva mancare per nessun motivo, purtroppo all’inaugurazione Mario non riesce ad andarci ma quella sera le sue fotografie hanno parlato a lungo di lui. Giacomelli è riuscito a sfuggire a quella vecchiaia che aveva sempre temuto, lottando per rimanere attaccato alla vita fino all’ultimo istante, con sempre rinnovata voglia di andare fino in fondo ai sentimenti degli uomini, fino in fondo a se stesso.
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Da poco ho avuto la fortuna di visitare le terre di Giacomelli e il mare solitario e ancora invernale della sua Senigallia, ed è stata pura emozione. Sono stata quasi colta da Sindrome di Stendhal, nel vedere tanta bellezza e sapienza matematica disegnata in quelle colline, sapendo inoltre che il Maestro aveva camminato in lungo e in largo su quella terra che mai aveva abbandonato, cogliendone i cicli delle stagioni, i cambiamenti, l’abbandono da parte del popolo contadino, sostituito dal monotono lavoro delle macchine agricole. Ho sentito il suo spirito vicino, come un compagno fedele e silenzioso, ho percepito la sua immensità poetica sfiorare i dolci profili, così sensuali a volte, delle piccole alture. Tristemente mi sono imbattuta in impatti ambientali che al tempo di Giacomelli ancora non avevano fatto la loro assurda comparsa. Ho visto vecchi paesini arroccati sui monti, vivere nella semplicità delle cose, stupita da quella intensa umanità, ancora esistente, che tanto Giacomelli aveva cantato nelle sue immagini.
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“Ma la strada è lunga e occorre avere fede nel respiro poetico che soggiace alle cose”. M.G.

"Queste foto sono una testimonianza. Sono costate dura fatica. Sono fatte di ragione, di tenace lotta con la tecnica, di sentimento fermo, di fiducia nei valori della poesia." Parole di Giuseppe Turron.

Con la poesia Mario Giacomelli ha smosso tanta acqua torbida, ha creato spazi eterni da cui ancora ci parla e chi può entrare e uscire da queste estensioni dell'artista sente che fuori il dolore è sempre più evidente e dentro ad ognuno di noi è sempre più in fondo, spinto a calci lontano dalla luce, unica salvezza. A volte per creare qualcosa da ricordare occorre dimenticare e prima di dimenticare bisogna avere (possedere) qualcosa da dimenticare: la macchina fotografica, le regole compositive, tecniche varie di ripresa e tutto quello che non riguarda la nostra persona e con lei quello che vuole entrare e ciò che vuole uscire, ricordando che non c'è niente che può stare solo fuori o solo dentro. Ecco, la stessa alchimia della camera oscura avviene nella nostra mente, dal fondo appiattito e vuoto, in mezzo a quel visibile, guardato ma non visto sorge l'invisibile, graduale e sottile nel realizzarsi, sicuro nel definirsi, affascinante e violento nel proporsi.

Grazie Mario.

Un grazie infinito a Lucy per il suo prezioso supporto tecnico e allo staff per avermi dato l’opportunità di parlare e raccontare umilmente questo Uomo caro.
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